L’impronta irreversibile che la globalizzazione, da un lato, il processo di selezione del credito basata sul merito, dall’altro, hanno impresso sul sistema produttivo italiano e – in misura particolare – sulla classe dimensionale delle PMI, impone alle aziende italiane, ormai da diversi anni, profonde revisioni del modello organizzativo e del sistema delle competenze. Il set di skills che poteva essere decisivo un tempo era composto in prevalenza di abilità produttive e commerciali: l’imprenditore italiano vinceva nel mondo solitamente per la capacità di realizzare un prodotto migliore, o più innovativo, dei concorrenti oppure di realizzare lo stesso prodotto degli altri a un costo più basso. Sul piano commerciale l’abilità di trovare la proposta più attrattiva, anche nel rivolgersi a un consumatore internazionale, ha sovente dotato l’impresa italiana di una marcia in più rispetto ad analoghe realtà di altri paesi. I risultati si vedono ancora oggi: l’Italia ha il secondo sistema manifatturiero d’Europa e l’export ha sorretto l’economia italiana anche negli anni più bui, salvandoci spesso da spinte recessive molto dure.

Nuove sfide finanziarie per le aziende

L’emergenza di un contesto finanziario oggi assai più complesso che nel passato, pone tuttavia le imprese davanti a un quadro competitivo in cui la selezione delle fonti di finanziamento della crescita del business diventa un fattore critico di successo, e la scelta degli strumenti di capitale più efficienti può marcare veramente la differenza. Ecco quindi una utile guida per orientarsi alla scelta degli strumenti finanziari.

Capitale Proprio e Capitale di Debito

Nell’ultimo decennio, i paletti imposti al sistema bancario dalle più recenti versioni degli accordi di Basilea hanno obbligato le imprese ad allargare la platea degli interlocutori finanziari. L’avvento dei fondi di private equity, soprattutto a partire dai primi anni duemila, ha offerto loro la possibilità di aprire il capitale proprio a soggetti economici di estrazione finanziaria, motivati dalla possibilità di recuperare sacche di efficienza e produttività, e di costruire valore per gli investitori attraverso un sostegno spesso attivo al management interno. Successivamente, anche nel microcosmo (apparentemente meno complesso) del capitale di debito, la platea dei potenziali interlocutori si è allargata ai fondi di private debtoppure alle piattaforme telematiche di mercato che offrono all’impresa la possibilità di collocare titoli obbligazionari da poter poi effettivamente scambiare (opportunità che nel passato più remoto prevedeva soglie dimensionali di accesso decisamente impraticabili per molte imprese).

La teoria del Trade Off e le sue implicazioni odierne

Oggi torna di moda la sfida a Modigliani e Miller: nel loro epocale contributo, i due Nobel americani teorizzarono l’invarianza del valore aziendale alle manipolazioni della struttura finanziaria. Al netto delle imperfezioni di mercato, delle asimmetrie informative e delle tasse – questa la dirompente conclusione di M&M – non è possibile costruire valore modificando il rapporto tra capitale proprio e capitale di terzi. In altre parole: il valore non si crea sul lato destro, ma sul lato sinistro dello stato patrimoniale. Con la selezione degli asset e non con la manipolazione della struttura finanziaria. La portata rivoluzionaria di questo teorema apparentemente semplice ha rivoluzionato la finanza d’impresa nei decenni successivi e fino ai nostri tempi, nel senso che il mercato ha capito che proprio sulle imperfezioni di mercato (che esistono) bisogna concentrarsi per individuare le riserve insondate del valore dal lato della finanza. Ruolo del CFO è diventato quello di lavorare sulle imperfezioni del mercato e sulle vischiosità che lo rendono variegato.

Però sfidare Modigliani e Miller significa al contrario, in questa precisa fase storica, impedire che la struttura finanziaria diventi un limite alla crescita e una minaccia alla sopravvivenza dell’impresa: dosare il mix di capitale proprio e di capitale di terzi in modo da scongiurare tensioni finanziarie che rischiano di mettere in pericolo un business magari sano, e in grado di creare valore, con una gestione finanziaria incurante del rischio. La recente revisione della normativa italiana sulla gestione delle insolvenze, ad esempio, richiama la necessità di attivare degli alert ogni volta in cui la struttura finanziaria manifesti squilibri che sia possibile scorgere attraverso un’analisi attenta del bilancio, e questa è una sfida alla quale molte aziende dovranno dedicare grande attenzione. Bisogna forse cominciare a focalizzarsi sul costo del capitale di rischio, cioè il cost of equity, mentre nel passato tutti gli sforzi sono stati orientati a controllare e contenere il costo del capitale di debito. Questo era anche una logica conseguenza della meccanica retrostante le diverse fonti di finanziamento: il costo del debito è esplicito e visibile, e non richiede calcoli troppo sofisticati. Il costo dell’equity è invece un concetto che sfugge a una valutazione chiara e immediata, e questo ha portato tutti a trascurarne l’importanza. Pur essendo un dato vero e reale, resta per molti un concetto quasi immaginario.

Bisognerebbe allora promuovere una autentica rivoluzione culturale.

Iscriviti alla nostra Newsletter per rimanere sempre aggiornato sulle ultime novità del mondo della Finanza

Una lunga tradizione… in evoluzione

La PMI italiana ha in prevalenza una proprietà familiare, oppure è una diretta emanazione delle competenze dell’imprenditore che ha spesso costruito attorno alla cultura del fare un’organizzazione d’impresa capace di vincere la sfida competitiva sui mercati internazionali. In tutto questo, si è perso il senso del valore. La cultura familistica italiana – pure portatrice di numerose virtù, anche imprenditoriali, che non staremo a ripercorrere – ha spesso individuato il valore da custodire nella mera sopravvivenza dell’impresa e nella possibilità di tramandarne la proprietà e la gestione alle future generazioni. Questa visione imprenditoriale ha spesso scavato un solco tra governance familiare e metriche del valore tipiche degli investitori finanziari: le difformità nella cultura del valore hanno poi creato incomprensioni che hanno finito per contrapporre le due tipologie di investitori (familiare-imprenditoriale da una parte, industriale-finanziario dall’altra) portandole a guardarsi con reciproca diffidenza.

Investitori e vantaggio competitivo

Molti imprenditori hanno vissuto con disagio la presenza in azienda degli investitori finanziari: un disagio che fa loro vivere con eterno fastidio le richieste di reportistica e di organizzazione delle informazioni sull’andamento del business, ma che sottende realmente una concezione del valore completamente diversa. Oggi bisogna imparare a correre nella stessa direzione. L’imprenditore italiano, anche se portatore di responsabilità familiari nella gestione dell’azienda, deve imparare a comprendere il valore, a misurarlo, pure a venderlo, aprendo perciò il capitale a investitori che della ricerca del valore fanno una ragione di esistenza, e deve soprattutto capire che un’impresa deve stare sul mercato solo se è capace di costruire valore. Deve quindi risultare chiaro a tutti che tramandare alle future generazioni un’azienda traballante non costituisce un valore in sé e che il modo migliore per raggiungere questo obiettivo – spesso esistenziale – dell’imprenditore è quello di diventare cultori del valore e di perseguirne la costruzione in ogni aspetto della vita aziendale, privilegiando nelle scelte questo obiettivo agli altri che possono sembrare più attraenti e più logici.

Sbaglierebbe l’imprenditore a considerare il ricorso all’equity come un mero riparo dalle ristrettezze nell’erogazione del credito, o dal costo del debito finanziario. L’equity ha un costo, che deve necessariamente essere superiore al costo del debito: lo dice la logica, perché l’equity ha una subordinazione al credito nella ripartizione del valore aziendale (i dividendi si pagano se c’è utile netto, e l’utile si forma se residua valore dal pagamento degli interessi e delle tasse). Anche in una ipotetica liquidazione degli asset aziendali, l’equity ha un valore residuale rispetto al debito che va rimborsato prima. Quindi non è logica la considerazione residuale che nella concezione imprenditoriale largamente diffusa in Italia è stata spesso riservata al capitale di rischio: a un’incertezza maggiore deve corrispondere una remunerazione più elevata.

Quotazioni in borsa: una soluzione?

Un’alternativa offerta dall’evoluzione finanziaria degli ultimi anni è l’accesso a piattaforme di trading semplificate riservate alle azioni delle PMI: una di queste è l’AIM di Borsa Italiana che molte aziende hanno puntato come canale di finanziamento. Anche in questo caso, è necessario accostarsi alla quotazione in borsa con l’approccio mentale giusto: credere di trovare in borsa una comoda alternativa alle faticose istruttorie bancarie, o alle costose emissioni obbligazionarie, e di accedere a una fonte di finanziamento a costo zero è un errore. Accedere allo status di quotata richiede impegno, una solida organizzazione, e una capacità costante di interloquire con il mercato in modo tempestivo, efficace ed esauriente. Questo chiama l’impresa a uno sforzo economico per dotarsi di tutte le strutture di garanzia dell’investitore che l’accesso all’AIM rende obbligatorie.

Strumenti finanziari: fatti consigliare!

Per fortuna il ventaglio di soluzioni è oggi molto più alto che in passato: serve lucidità strategica e qualità nella comprensione delle diverse implicazioni che ogni strumento finanziario presuppone. Serve una vera cultura del rischio e una comprensione chiara della struttura finanziaria e legale di ogni strumento del passivo. Le competenze industriali e commerciali, la conoscenza dell’industry specifica, non bastano più: servono competenze finanziarie e una cultura del valore di cui il CFO deve essere custode e che va coltivata in tutti gli aspetti della vita aziendale.

Scarica subito l’ebook “I 7 Segreti del CFO” e scopri come ottenere il successo finanziario della tua azienda